Centinaia di persone per ascoltare don Luigi Ciotti. E’ successo venerdì 2 dicembre al Teatro Fumagalli di Cantù. Il sacerdote è presidente dell'associazione Libera, che dal 1994 coordina 1.300 organizzazioni impegnate, in tutta Italia, nella lotta alle mafie.
L'incontro è stato promosso dagli Amici Operazione Mato Grosso, che sostengono attività di promozione umana in America Latina. Attilio Gerosa, membro dell'organizzazione, e Lorenzo Frigerio, referente di Libera Lombardia, hanno aperto la serata e introdotto l'ospite.
Don Ciotti, nel suo lungo e appassionato discorso, ha sviscerato vari temi della lotta al crimine organizzato. «Bisogna contrastare le mafie nei nostri territori, ma anche a Roma, facendo leggi giuste. Abbiamo bisogno di politiche sociali, sostegno alle famiglie, lavoro, percorsi culturali». Eppure, ha sostenuto il sacerdote, la forza delle cosche sta nell'illegalità e nella complicità della classe dirigente. Le mafie offrono quei servizi in cui le istituzioni si dimostrano carenti: in Italia ci sono 2,5 milioni di giovani disoccupati, oggetto di una continua azione di reclutamento da parte del crimine organizzato.
Nella nostra mente, ha ammonito don Ciotti, esiste una zona grigia dove tendiamo a non distinguere tra giustizia e ingiustizia, legalità e illegalità. La creiamo per autoassolverci dal sonno della nostra coscienza. «Non si uccide solo con le armi, ma anche con il silenzio. Per questo serve un'informazione seria» ha sostenuto, snocciolando una serie di dati significativi. La ricchezza delle mafie è stimata in circa 560 miliardi di euro; nei paradisi fiscali, per cui passa il 60% del commercio mondiale di beni e servizi, sono depositati 11 trilioni di dollari. «Non si fa abbastanza per contrastare l'evasione fiscale, la corruzione, il riciclaggio, che in Italia vale il 10% del Pil e costituisce una delle principali fonti di introiti per la mafia. E poi ci dicono che non ci sono soldi per la povera gente».
Don Ciotti ha concluso ricordando le vittime della mafia, da Falcone a Borsellino, dagli uomini della scorta a Cassarà, da don Puglisi al giudice Livatino. La fine del suo discorso è suonata come un appello a un risveglio della società civile: «Dobbiamo liberare chi libero non è, cioè chi è povero, sfruttato, senza lavoro. Che ci graffi dentro, questa voglia di metterci in gioco tutti».
S.D.
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