sabato 12 novembre 2011

“Giustizia, legalità e libertà: ecco le vitamine delle mie arance”

Secondo appuntamento del progetto Oltre lo sguardo promosso dal Coordinamento Comasco per la Pace: Incontro con Mario Caniglia, imprenditore che ha deciso di non pagare il pizzo.

«Non voglio che quello che è successo alla mia famiglia accada ad altri e, per evitare che ciò avvenga, bisogna parlarne – spiega Mario Caniglia – perché, quando ti trovi faccia a faccia con la mafia, capisci cosa volesse dire Giovanni Falcone con la frase "Il silenzio ammazza"».
In questo modo esordisce quel contadino che fin da quando era bambino aveva imparato a lavorare la terra e a vedere nel proprio raccolto il modo più corretto e onesto di vivere.
Parla delle sue arance, Mario, e di come riuscì ad avviare un'attività imprenditoriale vendendo quei frutti tanto dolci nella capitale italiana del commercio, Milano.
Poi abbassa lo sguardo, deglutisce e prosegue, dicendo che nel giro di poco tempo si accorse che forse non tutti a Scordia, l'amata città della arance rosse, brindavano per  la sua attività e ben presto ne ebbe la conferma con quella chiamata che gli cambiò la vita: "Brutto cornuto, o paghi 500 milioni o ammazziamo te e la tua famiglia”.



Sorride al pubblico, forse per non mostrare quella paura che ancora lo fa tremare, e dice che, da quel momento in poi, la mafia investì la sua vita e quella della sua famiglia, uccidendo pian piano quel senso di sicurezza e serenità che nasce tra gli abbracci calorosi e i sorrisi dei propri cari. Racconta delle minacce e delle intimidazioni, delle sue angurie distrutte e piene di tagli a forma di grosse croci, racconta di quelle interminabili giornate passate a rischiare la vita e degli sguardi diffidenti che sentiva puntati su di sé quando girava tra le vie del paese.
Mario, volgendo lo sguardo alla sua scorta, racconta anche dell'intervento nella sua vita dei carabinieri, non solo attori di quel copione entro cui si era trovato ad essere protagonista e testimone inconsapevole di crimini mafiosi, ma anche angeli custodi e amici. Spiega a tutti come quelle persone sconosciute e in divisa avessero deciso, così, da un giorno all'altro, di proteggere lui e la sua famiglia. Già, e parla anche di come, invece, nel giro di poco tempo, si sentì abbandonato da quelle persone che credeva sue amiche e da quegli imprenditori collusi che avevano deciso di entrare in quei sistemi  malavitosi.

Prosegue parlando dei suoi incontri con quei mafiosi dal volto sconosciuto che mandavano come messaggeri i loro "picciotti"; Caniglia più volte finse di essere un ex boss mafioso per mostrare ai suoi estorsori che non aveva paura perché poteva vantare amicizie importanti, ma socchiudendo gli occhi rivela al pubblico che aveva ragione Falcone: "Di paura si muore".

Poi, rincuorandosi, Mario parla della sua collaborazione con le autorità, delle microspie che "mostrarono allo Stato cosa vuol dire estorsione" e della sua testimonianza in tribunale, davanti a quelle facce che avevano fatto della sua Scordia un città corrrotta e ricca di omertà. Infine, dopo aver ribadito quel "no" alla mafia e anche al Servizio Centrale di Protezione che gli aveva consigliato di lasciare la città, arriva il secondo squillo di telefono più importante della sua vita, quello in cui gli comunicano che è arrivato il momento di andare un'ultima votla in tribunale per assistere all'arresto di Francesco Di Salvo, uno dei suoi estortori, e alla sua condanna a 8 anni e 5 mesi di carcere.

Così, con questa forza, questa paura e questo coraggio, Caniglia ha detto no al pizzo, e lo ha fatto come se, in effetti, non ci fosse alternativa alla legalità. Questo imprenditore, che in fondo voleva solo vendere il frutto del suo lavoro, con naturalezza spiega che non si può nascere da uomini liberi e morire da sottomessi, spiega che non è giusto perchè questa eguaglianza di cui tanto si parla e predica nasce proprio da un un principio di libertà a cui nessun uomo dovrebbe rinunciare.

Mario Caniglia conclude spiegando che oggi sta cercando di raccontare la sua storia in tutte le scuole italiane, perché i giovani sono il futuro e solo la loro innocenza e la loro determinazione può combattere l'arroganza della mafia, così mi sembra opportuno concludere citando Paolo Borsellino:
«Purtroppo i giudici posso agire solo in parte nella lotta alla mafia. Se la mafia è un'associazione antistato che attira consensi perché ritenuta più efficiente dello stato, è compito della scuola rovesciare questo processo perverso, formando giovani alla cultura dello stato e delle istituzioni».

G.P.

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